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domenica 2 gennaio 2011

L'ANALISI

PAOLO LEON
ECONOMISTA 

l'Unità 30 Dic.2010 
Le relazioni industriali sono ormai alla mercé dei datori di lavoro. Se Marchionne avesse contrattato come in Chrysler non rischierebbe il discredito dell’imprenditoria e il conflitto nelle sue fabbriche
Come il pugile suonato che prende un gancio dopo l’altro senza poter reagire, così appare il sistema delle relazioni sindacali italiane, ormai alla mercé dei datori di Lavoro. C’è già un feuilleton sulle gesta di Marchionne, dalle sue tattiche contrattuali alle sue scelte industriali, e sembra che egli sia riuscito ad assestare un colpo mortale alle conquiste post-68 (ricordate la Gelmini di pochi giorni fa?) che, d’improvviso, sembrano crollare come un castello di carte. Sappiamo che perfino lo Statuto dei Lavoratori non basterebbe a salvaguardare un dignitoso equilibrio tra le parti del contratto di lavoro, se la linea Fiat si estendesse a tutta l’industria. Nel frattempo, il ministro del Lavoro sta varando in Parlamento uno Statuto dei lavori, dove anche le difese dello Statuto vero e proprio (come L’art. 18 sui licenziamenti senza giusta causa) sono diluite omeopaticamente. Ma le cose stanno proprio così?

Marchionne ha usato il più antico degli strumenti per piegare il sindacato: lo ha ricattato, minacciandolo prima direttamente con la chiusura degli stabilimenti (Termini Imerese) e poi indirettamente, offrendo nuovi investimenti, senza i quali non reggerebbero alla concorrenza internazionale nè Pomigliano nè Mirafiori, il cuore della Fiat. Nella normale economia del crimine, al ricattato si offrono due scelte: pagare, sperando che si accontenti, ma poiché sa che il ricattatore tornerà con nuove minacce, cercherà di associarvi; oppure denunciare alla polizia il  ricattatore. Nel caso della Fiat, e fuori dall’economia del crimine, due sindacati hanno pagato, sperando che Marchionne stia ai patti, ma poiché non c’è alcuna ragione perché questo succeda, cercano di associarsi con lui per contrattare quanto possibile. A Marchionne una tale associazione non conviene: rifiutando sia il contratto nazionale sia la presenza in Confindustria, la Fiat si avvia ad assumere quanti e chi riterrà opportuno con contratti individuali. Naturalmente, Cisl e Uil hanno ceduto di schianto, perché nel caso del mercato del lavoro, non esiste la polizia alla quale denunciare il ricattatore: esiste la magistratura, che però opera sui singoli casi, e nei tempi eonici ben noti. Proprio l’aver ceduto al ricatto ha annullato qualsiasi potere sindacale alla Cisl e alla Uil, che ora, paradossalmente, dipendono dalla resistenza della Fiom, per poter raggranellare qualche forza residua nei confronti di Marchionne. Ma le cose stanno proprio così?

 Paure e  vizi. Non stupisce l’atteggiamento del governo, ma la paura di quei politici e intellettuali che non erano ricattabili, ma, con il solito vizio, sono corsi in soccorso del vincitore  di Marchionne.
La Fiat dipende strettamente dal suo indotto e dalla meccanica generale. Ambedue i settori operano per la Fiat in Italia, in Polonia e in Brasile. La meccanica generale ha poi buone  prospettive di operare senza la Fiat, per ordini in Europa e in Estremo Oriente, in particolare Germania e Cina; l’indotto, a sua volta, è certo dipendente dalla Fiat ma, sia pure con perdite, si può spendere nei confronti di altri produttori di automobili, in Europa e in Estremo Oriente. Allo stesso tempo, la Fiat non è capace di rifornire le linee di assemblaggio per lunghi periodi di lavoro: opera “just in time” e minimizza il suo magazzino, per risparmiare costosi finanziamenti. Così, il sindacato dei metalmeccanici, debole in Fiat, è forte nel resto del settore meccanico e metallurgico. Se riuscisse a separare momentaneamente i destini Fiat da quelli della filiera, allora potrebbe contrastare Marchionne: non solo a Pomigliano e Mirafiori, ma anche, e soprattutto, in Polonia e in Brasile. Si dovrebbero studiare meglio le ragioni che spingono La Fiom, novello Scipione L’Africano, a rifiutare il ricatto di Marchionne: la sua polizia sta nella filiera metalmeccanica.

Il problema non sono le esigenze di Marchionne: queste sono vere, soprattutto perché finora la Fiat ha fatto politiche di bassi volumi negli stabilimenti italiani, e per cambiare i volumi occorre certo aumentare la produttività, sia del lavoro sia degli impianti. Se avesse effettivamente contrattato come ha fatto in Chrvsler, anziché ricattare, non rischierebbe oggi Il discredito nei confronti del resto dell’imprenditoria italiana e, domani,  una sollevazione nelle sue fabbriche.
In tutto ciò, non mi stupisce l’atteggiamento del governo: padrone delle ferriere Marchionne, barone di Munchausen Berlusconi. Mi stupisce la paura di politici e intellettuali: che l’attuale e il futuro sindaco di Torino si assoggettino al ricatto, si può capire, anche se ci si attenderebbe una presa di responsabilità nei confronti della maggiore impresa torinese — del resto, nel passato, gli enti locali hanno via via perduto il loro ruolo nei confronti dell’imprenditoria locale. Non c’è, invece, scusa per gli intellettuali e quei politici che hanno sposato Marchionne: non erano ricattabili, né il Loro consenso era necessario alla Fiat, ma è il solito vecchio vizio di molti italiani quello di correre al soccorso del vincitore.


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