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mercoledì 13 luglio 2011

Pensioni, vi spiego come questo governo le saccheggia



Fonte l'Unità


C’è modo e modo di risanare i conti. E c’è modo e modo di intervenire sulla previdenza. Le scelte operate dal centrodestra, e culminate con i provvedimenti adottati nell’ambito della manovra sono ingiuste e sbagliate. Non si possono saccheggiare le pensioni per far quadrare il bilancio. Non si può ridurre il potere d’acquisto di rendite spesso già al limite della sopravvivenza e sperare di rilanciare i consumi. Non si possono colpire i più deboli per rimediare alle conseguenze di una gestione inadeguata della crisi che ha come unici responsabili Berlusconi e i suoi ministri.

Nonostante le promesse di Sacconi, che a più riprese ha giurato che non si sarebbe toccata la spesa pensionistica e che adesso si dice disponibile a considerare alcune richieste dei sindacati, in questi anni l’esecutivo ha usato la mano pesante sulla previdenza. Dobbiamo costringere Tremonti a fare marcia indietro sulla misura più iniqua della manovra: il taglio del 45 per cento della rivalutazione delle pensioni da tre a cinque volte il minimo, che non colpisce quelle più ricche, ma operai e impiegati che percepiscono assegni mensili oscillanti tra i 1050 e i 1800 euro netti e che già da anni sono penalizzati da un adeguamento solo parziale rispetto all’andamento del costo reale della vita. Alle pensioni nel complesso le casse dello Stato sottrarranno, nel prossimo biennio, circa un miliardo di euro. Un provvedimento non proprio all’insegna dell’equità, che ha il sapore di una vendetta sociale nei confronti di chi ha trascorso, in fabbrica o in ufficio, una dura vita di lavoro ed è arrivato al traguardo dopo aver pagato 35-40 anni di contributi.

Il ritiro di questa norma, come richiesto dal PD, non basta se rimarrà l’obbrobrio della totale cancellazione per due anni della rivalutazione delle pensioni comprese tra cinque e otto volte il minimo che va, anch’esso, eliminato. Questa di Tremonti non è però che l’ultima mossa. Sulle pensioni il governo Berlusconi, in precedenza, ha fatto di tutto e di più. Ha introdotto, attraverso la finestra unica, l’allungamento automatico di un anno della vita lavorativa. Anche per chi ha già maturato i 40 anni di contributi e anche per chi finisce il periodo di mobilità, che così resterà per un anno senza alcun reddito: né indennità né pensione. Ha anche agganciato l’età del pensionamento alla speranza di vita. Tradotto in pratica, significa che ogni tre anni l’età di uscita si alza di tre mesi. Ciliegina sulla torta ha pure anticipato di un anno, dal 2015 al 2014, l’operatività del provvedimento.

Nel frattempo, dopo aver portato a 65 anni l’età pensionabile per le donne dipendenti dalla pubblica amministrazione, ha introdotto un’analoga misura per il settore privato. Per ora l’approccio è soft - si comincerà nel 2020 per arrivare a regime fra una ventina d’anni – ma questo governo ci ha abituato prima a negare, poi a prendere provvedimenti, poi ad anticipare l’attuazione delle decisioni prese. Intanto la strada è stata imboccata.

Le misure adottate dal governo Prodi
Di tutt’altro tenore era stato, nel 2007, l’approccio al tema pensioni da parte del governo Prodi. Eppure anche allora, dopo i risultati disastrosi di Berlusconi, che aveva governato dal 2001 al 2006, bisognava far quadrare i conti. Niente tagli indiscriminati. Si era intervenuti congelando per un anno la rivalutazione delle rendite più alte, quelle superiori a otto volte il minimo. Con un risparmio che la Ragioneria aveva valutato in circa 140 milioni di euro all’anno. Al tempo stesso, però, era stato stanziato oltre un miliardo e 150 milioni di euro all’anno a favore dei pensionati più poveri, quelli con un assegno mensile fino a 700 euro. In quel modo tre milioni e mezzo di persone si sono viste assegnare la “quattordicesima”, che ancora oggi viene erogata nel mese di luglio.

Il centrosinistra non si era fermato qui. Era intervenuto per ridurre gli effetti dello “scalone Maroni”, attenuando il salto previsto per quanti stavano per maturare la pensione di anzianità e aveva introdotto – con tanto di finanziamento – il pensionamento anticipato per chi è sottoposto a lavori usuranti. Un provvedimento che, per responsabilità del centrodestra, è entrato in vigore solo l’inverno scorso, con tre anni di ritardo sui tempi previsti. E un “risparmio” per Tremonti, a danno dei lavoratori, di 283 milioni. Ma, soprattutto, il centrosinistra aveva migliorato il meccanismo della totalizzazione dei contributi a vantaggio dei più giovani, portando la franchigia – cioè il periodo contributivo che di fatto si perde – dai precedenti sei agli attuali tre anni. Tutti interventi, come confermano le cifre, all’insegna del principio dell’equità sociale e della redistribuzione delle risorse a vantaggio dei più deboli. Il punto è qui. In una situazione di crisi economica e sociale come quella che stiamo vivendo sono importanti segnali di redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso e non viceversa. Anche sulle pensioni si può intervenire. Purché la logica sia quella. Una cosa è il blocco per un periodo dell’indicizzazione delle pensioni più alte, un’altra è colpire le rendite medio - basse.

La logica redistributiva deve valere anche per l’aumento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato, che noi avremmo preferito evitare. Perché non affrontare la questione con un’ottica diversa, puntando sulla flessibilità? Si afferma di voler aiutare la famiglia e, insieme, di voler valorizzare il lavoro al femminile. Perché allora non si prevede per le lavoratrici madri lo sconto di un anno per ogni figlio? Perché non si prevede un altro sconto se in casa c’è un portatore di handicap? I risparmi che possono derivare dal progressivo innalzamento dell’età pensionabile delle donne possono essere utilizzati in questa direzione: a favore delle donne, specie di quelle più svantaggiate. Cosa che finora il governo ha evitato di fare, a partire dalle risorse risparmiate con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne del pubblico impiego. Occorre inoltre considerare la differenza tra l’operaia di un’azienda tessile o metalmeccanica e una lavoratrice del settore pubblico. Non solo per quel che riguarda le mansioni. Nel settore privato le carriere sono spesso discontinue e se si viene espulsi a causa di una ristrutturazione dopo i 50 anni, difficilmente si trova una nuova occupazione. Aspettare fino ai 65 anni per avere la pensione diventa un’ingiustizia.

Sono possibili proposte alternative
Le proposte del Pd vanno in direzione di una maggiore giustizia e di una maggiore flessibilità, come indicato dall’ordine del giorno votato all’unanimità alla Conferenza sul Lavoro di Genova. Io penso che, nell’attuale situazione, si possa proporre che nessuno debba andare in pensione di anzianità o di vecchiaia prima dei 62 anni (escluso naturalmente chi ha maturato i 40 anni di contributi), con la possibilità di restare al lavoro fino ai 68-70 anni. Ma con un incentivo per chi resta oltre i 65 anni e con la possibilità di decidere in piena libertà, dopo i 62, il momento in cui ritirarsi. Considerando, naturalmente, le eccezioni più vantaggiose previste da norme specifiche come quelle relative al riconoscimento dei lavori usuranti o di cura.

Quella dell’età non è però la sola questione in campo. A differenza di quanto previsto dal governo, va anzitutto garantito, a chi ha 40 anni di contributi, a chi ha perso il lavoro, a chi è in mobilità, a chi ha l’autorizzazione alla prosecuzione volontaria, il mantenimento dei requisiti previsti nel 2007 in materia di accesso alla pensione. La rivalutazione delle rendite attuali va calcolata in base alla perdita reale del potere d’acquisto. E la “quattordicesima” va estesa, con gradualità, anche a chi percepisce assegni compresi in una fascia immediatamente superiore a quella fino a 700 euro prevista nel protocollo del 2007.

Ma soprattutto, guardando al futuro e alla totale entrata in vigore del sistema contributivo, andrebbe garantita una pensione di base uguale per tutti costituita da una quota a carico della fiscalità generale sulla quale “poggiare” i contributi versati nel corso della vita lavorativa, in modo da garantire - a chi si affaccia oggi al mondo del lavoro - una copertura pari almeno al 60 per cento delle ultime retribuzioni. E va portata a compimento la reale totalizzazione dei contributi, considerando valido ogni versamento indipendentemente dall’ente, cassa o fondo a favore del quale sia stato effettuato. I contributi previdenziali corrisposti per ogni giorno di lavoro devono valere per la pensione futura.

Sulle pensioni – e sul resto dello stato sociale – non si può fare cassa. Se si intende intervenire lo si faccia nell’ottica di una vera riforma che sia oggetto di concertazione con le parti sociali e si ritirino i provvedimenti previsti nella manovra. Il Pd farà la sua parte. Se la situazione si è modificata rispetto al passato, le regole devono tener conto della sostenibilità del sistema, ma anche dell’adeguatezza degli importi pensionistici. Che devono garantire a tutti la possibilità di una vita dignitosa.

* ex ministro del Lavoro, esponente del Pd

www.cesaredamiano.org

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